Foto: Rosso plastica (1961), combustione di Alberto Burri.
a cura di Elisabetta Cofrancesco, medico e psicoterapeuta.
Estratto della relazione “Quale formazione per i medici del futuro” presentata da Elisabetta Cofrancesco al Convegno CISL Medici Lombardia “Il sistema sanitario ripensato dai giovani medici e veterinari: quale futuro e quali prospettive per gli operatori sanitari”, Milano, 23 novembre 2017
Le statistiche sullo stato di salute dei medici sono purtroppo spaventose: Drugs, Drink and Depression (le tre D) sono frequenti tra i medici (15-25%), i pensieri di suicidio (6-12%) più che doppi rispetto alla restante popolazione (tra le donne medico sono tre volte in più rispetto ai colleghi maschi) (1). Le categorie più a rischio sono anestesisti, chirurghi, ginecologi, medici del pronto soccorso e i giovani medici, specializzandi e neolaureati. Uno specializzando, infatti, spesso deve fronteggiare lunghissime ore di lavoro, l’ansia e il comprensibile senso di inadeguatezza, una forte competitività, la disperazione per un futuro incerto (2).
Alcuni fattori della cultura medica concorrerebbero al drammatico fenomeno del burnout tra i medici. Pranay Sinha, medico al 1°primo anno di specializzazione in medicina interna a Yale, presso il New Haven Hospital, parla di una forma di machismo che pervade la classe medica: infallibilità, onnipotenza, perfezionismo, competitività. “Dovremmo poter dare voce a dubbi e paure, poter parlare della tristezza profonda che ci ingenera firmare il nostro primo certificato di morte, della mortificazione che ci causa la prima prescrizione sbagliata, dell’imbarazzo di non saper “cosa dire” o “cosa fare”…”(3).
Antidoti al burnout per i medici: rinunciare al machismo, condividere il disagio (supervisioni), sviluppare Emotional Self-Awareness (D.Goleman), e coltivare vocazione e impegno. Kao et al. (Ethics standards Group, AMA) in un sondaggio del 2017 a cui hanno risposto 2.263 medici, ha evidenziato come il burnout sia tanto più grave e diffuso, quanto più è affievolita la vocazione, ovvero l’attitudine a impegnare la propria vita in un lavoro ritenuto personalmente significativo e al servizio di un bene superiore (4).
Vocazione e impegno si coltivano soprattutto attraverso una buona relazione medico-paziente, ricca e gratificante non solo sul versante delle specifiche competenze, ma anche sul versante emotivo e quindi basata su empatia, autenticità, gentilezza, umanità. Queste qualità favoriscono nel paziente un clima di fiducia, dall’altra sviluppano nel medico sempre maggior predisposizione alla cura, passione e senso di responsabilità.
Peccato che la attuale formazione universitaria e post-universitaria dei medici, orientata prevalentemente alla biomedicina e alla tecnologia, sia molto carente in competenze relazionali e di buona comunicazione. E’ necessario sempre di più che i medici si impegnino in una formazione continua che valorizzi gli aspetti emotivo-affettivi della relazione di cura, e quindi la capacità di ascolto, l’intelligenza affettiva, e l’autenticità e sensibilizzi al valore imprescindibile della crescita personale: è importante che la formazione dei medici (prima e dopo la laurea) tenga conto di queste istanze e prepari non solo al ‘sapere’ e al ‘saper fare’, ma anche al ‘sentire’ e al ‘saper essere’ ovvero ‘saper stare’ (con la sofferenza, il dolore, l’ansia, la paura…) nella giusta distanza. E con giusta distanza intendo un modo di stare nella relazione che faccia sentire il paziente accolto e compreso, e il medico empatico e sicuro nel suo ruolo.
1. West CP et al. Interventions to prevent and reduce physician burnout: a systematic review and meta-analysis. Lancet. 2016; 388 (10057): 2272-2281.
2. Rotenstein L.S. et al. Prevalence of Depression, Depressive Symptoms, and Suicidal Ideation Among Medical Students. A Systematic Review and Meta-Analysis. JAMA. 2016;316(21):2214-2236.
3. Pranay Sinha, Why Do Doctors Commit Suicide? The New York Times, 4 settembre 2014
4. Kao A.C. et al. Association Between Physician Burnout and Identification With Medicine as a Calling. Mayo Clin Proc. 2017;92(3):415-422