di Francesca Boschetti, infermiera di cure palliative presso IEO – Milano, Counselor CoMeTE
Abstract presentato al XXI Congresso della SICP, Arezzo 9-12 ottobre 2014
Nell’ambito delle cure palliative la relazione rappresenta il fulcro del processo terapeutico. In particolare il counseling è una “relazione di aiuto” che consente al paziente e ai familiari di sentirsi riconosciuti, compresi, accettati e quindi consente loro di recuperare dignità, autostima e autodeterminazione (empowerment), aspetti questi che non solo spesso non sono tenuti in considerazione, ma addirittura vengono mortificati in fase di comunicazione della diagnosi e dell’interruzione delle terapie attive.
L’aiuto che il counseling offre non consente tanto nel proporre soluzioni e nell’eseguire complicati riaggiustamenti terapeutici, quanto piuttosto nel togliere ostacoli (emozionali, cognitivi, relativi a oggettivi impedimenti esterni, ecc.) rendendo così possibile il dispiegarsi di energie/potenzialità che la persona possiede, ma a cui, nel momento contingente, non può/non sa accedere.
Ciò che si verifica spesso nelle comunicazioni che hanno come contenuto la diagnosi o l’interruzione delle terapie attive è l’incapacità di “stare con l’altro”, di stare accanto al suo dolore, ascoltare la sua rabbia e la sua delusione senza per questo vivere un senso di colpa, di frustrazione, con la conseguente messa in atto di meccanismi di difesa (“no ma io…”, “ sì, però…, “io non le ho detto questo…”).
Assumersi la responsabilità di una comunicazione difficile e dolorosa nei suoi contenuti, non significa assumersi la responsabilità della malattia del paziente e tantomeno della sua morte.
E’ indispensabile per il paziente ed i familiari darsi la possibilità di manifestare la loro rabbia, l’amarezza, la delusione, il dolore. E l’operatore sanitario, portatore del messaggio, è chiamato ad essere testimone della sua manifestazione emotiva, in silenzioso rispetto e, nello stesso tempo, in uno stato di immedesimazione che gli consente di comprendere il vissuto del paziente/familiari e il loro dolore.
Tutto ciò si realizza assumendo stili e competenze che utilizzano interventi e modalità assistenziali che integrano l’azione assistenziale del fare con quella dell’ascoltare, quella del sapere con quella del saper esserci, la dimensione della cura/terapia con quella della presenza empatica.
Anche gli spazi di silenzio sono molto importanti nel dialogo con l’altro. Lo spazio riempito dal silenzio consente alla persona di far depositare più in profondità le parole e a far emergere delle reazione fisiche emotive quali il pianto, la collera, il tremore, il singhiozzo. Tuttavia la maggior parte degli operatori ha paura del silenzio, non sopporta le pause e inizia a porre domande, a fare digressioni personali, a premere con appelli e altro per farlo cessare.
La nostra cultura non educa a vedere nella giusta prospettiva i pensieri, le emozioni e le esperienze, così che molte persone, trovandosi di fronte alla morte, alla sfida ultima, si scoprono ingannati dalla loro stessa ignoranza, si sentono terribilmente frustrati e adirati, soprattutto per il fatto che nessuno sembra volerli comprendere nei loro bisogni più profondi. Avvicinarsi alla fine della vita senza aver fatto un adeguato percorso di preparazione, porta a galla molte emozioni rimosse: tristezza, amarezze, chiusure, sensi di colpa, persino invidia per la salute degli altri. E’ compito degli operatori sanitari aiutare il paziente e la sua famiglia a non rimuovere queste emozioni ma ad attraversarle nella loro piena intensità stando loro vicino amorevolmente. Con l’accettazione, con il tempo e una comprensione paziente queste emozioni lentamente si placheranno. E’ necessario pertanto che gli operatori siano adeguatamente formati all’accoglienza, all’ascolto empatico ed accettante, ad una comunicazione chiara e autentica.
Le persone che si stanno avvicinando alla morte hanno quasi sempre la consapevolezza di ciò che sta per accadere, alcuni di loro vogliono parlarne e altri no, alcuni la maturano settimane prima della morte, altri solo alcuni giorni od ore prima. La presa di consapevolezza del paziente sulla sua vicina morte arriva con l’accorgersi, giorno dopo giorno, della sua perdita di autonomia. Ciò che crea la maggior sofferenza ad una persona malata non è il dolore fisico ma la perdita delle proprie capacità, e con questa la percezione della perdita della propria dignità.
Quando la persona sta per morire è utile non solo lasciare andare le vecchie tensioni ma imparare a lasciare andare la persona che muore. Attaccarsi e aggrapparsi al morente non fa altro che creare dolore inutile ed aggiuntivo alla persona malata e gli renderà estremamente difficile staccarsi e morire serenamente.
Prendersi cura dei morenti ci rende intensamente consapevoli non solo della loro mortalità, ma anche della nostra. Quando veniamo messi di fronte al fatto che moriremo iniziamo a provare un senso straziante della fragilità e della preziosità di ogni momento della vita e di ogni essere vivente. Da ciò non può che emergere una profonda, limpida, infinita compassione per noi stessi e per tutto ciò che ci circonda.