A proposito di genitori e figli “nati digitali”


a cura di Massimo Silvano Galli, pedagogista clinico.

La mamma di Mirko e Fabiola (6 e 7 anni) mi racconta che lo scorso weekend il loro telefono cordless superdigitale è passato improvvisamente a miglior vita. Così, per non restare isolati durante il fine settimana, il papà si è ricordato di avere un vecchio telefono in soffitta, di quelli ancora con la ghiera di plastica per comporre il numero. Detto fatto, il telefono viene istallato tra la curiosità dei bambini di fronte a quel reperto paleolitico e la voglia di provarlo e raccontare ai nonni l’accaduto. Il primo che ci prova è Mirko, il più grandicello… niente da fare: “Papà, non funziona questo coso,” dice. Allora è il turno di Fabiola, ma… niente: altro insuccesso. Dopo diversi tentativi, i genitori divertiti decidono di intervenire spiegando ai bambini che per comporre il numero non bisogna schiacciare, ma infilare il dito nel buco e ruotare la ghiera…

Nativi digitali: orgoglio e dannazione per i genitori

Era appena iniziato il nuovo millennio (2001) quando Mark Prensky coniò, in due fortunate pubblicazioni, il termine di Digital Native (nativi digitali) e Digital Immigrants (migranti digitali), ovvero coloro che sono nati in un tempo in cui Internet & Co. iniziavano a dilagare (più o meno il 1985) e coloro che, nati precedentemente, arrivano dal mondo analogico e verso il digitale devono migrare.

Il concetto, insomma, è che l’avvento di internet e dei suoi afferenti avrebbe creato due gruppi sociali distinguibili su base anagrafica i quali dovrebbero differenziarsi non solo per capacità e modalità d’uso di queste tecnologie, ma anche per il loro sistema neuronale e cognitivo plasmato (al rialzo) dall’uso delle tecnologie stesse. Ecco quindi compiuto l’assioma: i nativi digitali sono cognitivamente migliori dei loro passati coetanei e, quindi, dei loro padri. Dei geni, insomma, che già a 3 anni sanno accedere a YouTube (e poco dopo a YouPorn). Fa niente se poi, davanti a un telefono con ghiera, finiscono per fare la figura di un decerebrato, se paiono mancare di capacità pragmatiche e di problem solving perché assuefatti a schiacciare un bottone affinché si compia il miracolo di qualsivoglia soluzione.

I figli del digitale non sono dunque dei geni (smettiamo di pensarlo, sarà un bene soprattutto per loro). Essi rispondono compiutamente agli stimoli di una società ricca di opportunità (anche alimentari, per dirne una) che nutre e mette in moto particolari aree del cervello ma che corre il rischio di privarne altre se, appunto, non facciamo lo sforzo di aiutare questa generazione ad uscire dall’isolamento delle tecnologie quale unico (o quasi) contenitore esperienziale. Quando, infatti, si cresce aspettandosi che tutto funzioni schiacciando un tasto (“in tempo reale”), si rischia di perdere di vista la processualità delle cose, quella che il digitale nasconde in un’algoritmo accessibile solo a pochi adepti, una stringa non smontabile come potrebbe essere una sveglia a ingranaggi o una macchinina a molla. Forse per questo lo strumento tecnologico è spesso oggetto più di consultazione che di produzione, determinandone quindi un uso passivo e acritico che ha poi una forte incidenza anche nella vita reale.

Le abitudini digitali hanno cambiano e stanno cambiando la nostra relazione con la realtà facendo insorgere nei nostri ragazzi una sempre più diffusa incapacità ad attendere, cui si giustappone un comunicare sempre più frammentato, fatto per lo più di parole d’ordine e scorciatoie, elementi che giungono a influenzare, tra gli altri, la produzione e la lettura di testi, ma anche le relazioni sociali, sempre più consumate nel segno dell’immediatezza.  Forse per questo nelle esclusive scuole della Silicon Valley, quelle frequentate dai figli dei grandi manager di Google, Apple, Microsoft etc., non si tocca un computer, un tablet o uno smartphone prima delle ultime classi scolastiche, mente si abusa di lavagne, gessi colorati, oggetti e materiali per apprendere a esercitare la fisicità e la fantasia. In un sevizio del New York Times di qualche anno fa, uno dei manager che dalla valle del silicio plasmano il nostro radioso futuro ipertecnologico, dichiarava che l’idea che un tablet potesse aiutare il proprio figlio ad apprendere era semplicemente ridicola, mentre era più facile che minasse le sue capacità di concentrazione – capacità spesso fragilissima in questi “nati digitali”, salvo ovviamene quando sono impegnati a combattere in qualche videogame.

Le nuove tecnologie, ormai non più così nuove, rappresentano una straordinaria evoluzione delle possibilità umane, pari all’invenzione della ruota, della scrittura, della stampa, del motore a scoppio, etc. Dobbiamo imparare, soprattutto noi adulti, a non demonizzarle, ma neanche a sottovalutarne gli effetti deteriori.  Descriviamo di seguito alcune situazioni che spesso si presentano nel lavoro con le famiglie e che rappresentano un campanello d’allarme, suonato il quale, è forse importante pensare di intervenire con opportune strategie rieducative.

Una delle prime questioni da tenere sott’occhio è il tempo che bambini e ragazzi trascorrono in rete o videogiocando. In linea di massima, quando nostro figlio supera le due ore attaccato a pc, tablet o smartphone è senz’altro il caso di ridurre l’esposizione, sopra le tre ore è consigliabile intervenire. Se poi notate che, addirittura, tende a rimandare altre attività come frequentare gli amici, fare sport, dormire, mangiare o altro, allora è doveroso iniziare a preoccuparsi.

Altra situazione da prendere in esame riguarda l’aspetto emotivo. Se osserviamo che nostro figlio attende con eccessiva ansia il momento in cui prendere possesso della rete o del videogioco, tanto che un possibile ritardo o l’impossibilità di farlo gli provoca irritazionenervosismo o ingiustificati scatti di rabbia; oppure se gli è insopportabile qualsiasi interruzione, allora è consigliabile pensare di intervenire.