La capacità di ricordare e di dimenticare: memoria e affetti


di Paolo Gilardi, counselor, musicista.

Inizierò queste mie riflessioni sulla memoria partendo dalla mia esperienza di musicista, concertista e didatta, integrandole successivamente con la mia pratica di counselor analista.

Una delle paure più grandi dei pianisti durante le loro esecuzioni pubbliche è di avere uno dei cosiddetti “vuoti di memoria” e fin da giovane non sono stato immune da questa paura collettiva che a volte diventava penalizzante e paralizzante per la mia esecuzione. Per chi non è un addetto ai lavori, vorrei spiegare che c’è una tradizione ottocentesca che auspica che l’interprete suoni sempre a memoria in concerto; recentemente qualche grande pianista l’ha messa in discussione suonando con gli spartiti, ma nella maggioranza dei casi questa tradizione è ancora consueta e valida (anche perché ha una sua funzionalità).

In realtà ho sempre avuto la fortuna di memorizzare i pezzi velocemente: quando studio un pezzo per 10-15 giorni generalmente mi ritrovo a memorizzarlo senza neppure rendermene conto. Questo processo di apprendimento istintivo accade a molte persone: è una sorta di “memoria muscolare”, un ricordo dei movimenti che, man mano che vengono ripetuti, si fissano nel corpo (dita, mani, polsi, braccia, spalle e tutte le parti implicate nel gesto che determina uno specifico suono). È la stessa cosa che succede, ad un livello più semplice, quando impariamo a guidare o ad andare in bicicletta: si crea una sorta di automatismo che ci permette di compiere quel movimento potendo pensare ad altre situazioni o parlando coi nostri compagni di viaggio.

Perché allora per un’operazione che sembrerebbe così semplice subentra successivamente un’ansia che può divenire invalidante?

Una prima risposta è sicuramente legata alla paura del palcoscenico: ciò che viene imparato e assimilato, sotto lo stress della performance e l’ansia da “prestazione perfetta”, può essere scardinato e crollare, soprattutto per le persone con una personalità più vulnerabile all’errore e al giudizio degli altri.

Immaginate di dover rifare l’esame della patente e che in caso di errore ve la toglierebbero per sempre: capite bene che la posta in gioco si alza e ciò che fino ad oggi avete fatto con tranquillità e naturalezza, viene vagliato attentamente ed è soggetto a un ipercontrollo che potrebbe paradossalmente portarvi a sbagliare.

A volte mi capita di constatare in alcuni miei allievi di pianoforte la presenza di una sorta di “sabotatore interno”, una figura negativa e distruttiva che, quando incominciano a suonare veramente bene, interviene in modo dispotico dicendo loro qualcosa del tipo: «Ma chi ti credi di essere? Non ti puoi permettere di essere così bravo! devi volare basso, devi sbagliare!». Ecco allora che entra in scena la dimenticanza, l’errore legato alla memoria e il sabotatore interno trionfa sulla preparazione accurata dello studente.

Ricordo lo sconcerto che provai quando, a 19 anni, andai a lezione da un grande pianista e gli posi la questione: «Maestro, ma come si può rendere più solida la memoria e non avere più questa paura di dimenticare i brani?». Mi rispose lapidario: «Sai caro, noi ricordiamo solo ciò che ci interessa veramente!». Ma come? Come poteva dire una cosa così a me che avevo passato tutti quegli anni di duro lavoro alla tastiera e che amavo la musica più di ogni altra cosa al mondo?! Per anni quella sorta di responso della Sfinge è rimasto scolpito nella mia mente, enigmatico e tagliente, bruciante e incomprensibile. Eppure col passare degli anni ho incominciato a capire: mi sembra che il nucleo dell’“Enigma del Maestro” stia nell’etimologia della parola ri-cordare, cioè riportare al cuore (dal lat. recordāri, deriv. di cŏr ‘cuore’, perché il cuore era considerato sede della memoria). In altre parole: se ciò che suoni ti è entrato completamente nel cuore, se ogni singola frase, ogni singola nota, ha per te un significato, un portato emotivo, un’atmosfera ben definita, ponderata, sentita, col corpo, con la mente e appunto col cuore, allora c’è una buona probabilità che la memoria sia sicura e resista allo stress del palcoscenico. A questo proposito vorrei citare quanto scrive Irvin Yalom, psicoterapeuta e scrittore statunitense: «È anche importante per il terapeuta sapere, e spesso sottolineare ai pazienti, che vi è una connessione rilevante tra emozioni e memoria. I ricordi sono più potenti e più profondamente codificati se sono associati ad una forte emozione. …Questo è il motivo per cui i ricordi traumatici sono così persistenti e praticamente impossibili da estinguere, ma è anche il motivo per cui l’ “apprendimento” associato a una spiegazione terapeutica sarà più potente e significativo per un paziente se è accompagnato anche da un’emozione – ad esempio, quella evocata nel crogiolo di un potente e premuroso rapporto terapeutico» (1).

In fondo questa è anche la dinamica per cui si forma il Transfert, in psicoanalisi e nella vita quotidiana: le caratteristiche di una figura chiave di accudimento (in genere mamma o papà) che ha avuto un impatto affettivo fondamentale nell’infanzia di una persona, vengono rivissute e trasferite su una figura della vita attuale, grazie ad alcune caratteristiche (reali o proiettate) di questa figura attuale che ricordano quelle della figura passata. In altre parole avviene un processo, generalmente inconscio, di recupero del passato tramite un oggetto del presente: si crea una sorta di finestra spazio-temporale, di passaggio diretto che ci riporta nel giro di qualche istante al passato. Un po’ come le madeleine intinte nel tè di proustiana memoria. Ma anche come accade per alcuni brani musicali che ci stanno particolarmente a cuore, che abbiamo ascoltato tanto in un determinato periodo della nostra vita, che appena li ascoltiamo ci riportano improvvisamente in quella situazione precisa del nostro passato. La memoria diventa un processo necessario e rapidissimo, quasi istantaneo, spesso inconscio e comunque assolutamente istintivo.

Le neuroscienze hanno dimostrato che esiste in ognuno di noi una memoria che è inconscia e indipendente dalla nostra volontà (memoria implicita) e una memoria invece della quale siamo ben consapevoli e che cerchiamo di mantenere con uno sforzo più o meno grande (memoria esplicita). L’interprete musicista sembra che debba destreggiarsi tra queste due tipologie di memoria e integrarle il più possibile.

Da una parte c’è la memoria implicita che a sua volta si suddivide in memoria procedurale – quella che permette di assimilare il movimento e che prima ho chiamato “memoria muscolare”– e in memoria affettiva, legata cioè al portato emotivo, in relazione al brano e alla situazione specifica in cui si verifica l’apprendimento (ad esempio il rapporto con l’insegnante, che funge spesso da ideale al quale lo studente può ispirarsi).

Dall’altra la memoria esplicita che permette di memorizzare la struttura formale e armonica del brano, la visualizzazione dello spartito, il movimento melodico-ritmico delle parti principali e secondarie e in generale l’approfondimento di tutti gli aspetti tecnico-musicali. A questo punto, dopo questo profondo processo di analisi e memorizzazione, nel momento dell’esecuzione paradossalmente per ricordare è necessario dimenticare.

«Impara l’arte e mettila da parte» recita un vecchio proverbio. Ed effettivamente è quanto succede durante il concerto: l’interprete che si è preparato con cura e che ha affinato il senso del brano che deve eseguire, nel momento dell’esecuzione è come se dovesse dimenticare tutto e affidarsi a una sorta di istinto del presente, un’improvvisazione nel “qui e ora”. In altre parole è importante che il concertista possa stare nel processo di ciò che accade, dei suoni che egli stesso ascolta provenire dal contatto delle sue dita coi tasti, mettendo da parte ogni analisi razionale e ogni memorizzazione pre-stabilita, non pensando a quali note dovrà suonare nel giro di qualche istante, ma affidandosi quasi esclusivamente al momento unico, nuovo e irripetibile dell’incontro con quel pianoforte, quella sala, quel pubblico.

Ed è ciò che accade anche nel processo della relazione d’aiuto. Il terapeuta, per entrare in profonda sintonizzazione empatica col paziente, nel “hic et nunc” dell’incontro deve poter dimenticare l’idea che si è fatto di quella persona, tralasciare eventuali riferimenti diagnostici o procedure pre-costituite, per aprirsi al mondo del paziente e al “campo” del loro rapporto. È il famoso “senza memoria e senza desiderio” dello psicoanalista britannico Wilfred Bion: l’analista prova a mettersi davanti alla persona senza preconcetti che gli arrivano dal passato e senza aspettative e desideri di dirigere il futuro del paziente, ma con un’apertura al nuovo che gli permette di cogliere ciò che accade nel momento presente.

Concluderei queste riflessioni con una citazione dello stesso Bion (2): «La capacità di ricordare quanto ha detto il paziente deve andare di pari passo con la capacità di dimenticare, sì che ogni seduta sia una seduta nuova, vale a dire una situazione ignota, da indagare psicoanaliticamente, senza essere troppo offuscata da preconcetti e concetti erronei».

Quante potenzialità, in noi e nella relazione con l’altro, germoglierebbero se questo atteggiamento diventasse un modo di essere condiviso e comune; ad esempio svegliarsi ogni giorno e vedere il partner come una persona nuova, con la quale esplorare territori insoliti e avventurosi. Quanto il desiderio e l’attrazione potrebbero essere coltivati da questa “dimenticanza”! Ma questo è un altro tema e ci porterebbe molto lontano…

1 YALOM, I. D. (2002), Il Dono della Terapia, Neri Pozza, Vicenza, 2014, pag. 269-270

2 BION, W.R. (1962), Apprendere dall’Esperienza, Armando Roma, 1971, pag. 79